di Anne Novion, 2008
9 marzo 2010
"Rapporti padre-figlia per un romanzo di formazione ambientato in un arcipelago svedese"
Settimana della cristica Cannes 2009
Alla vigilia del suo diciassettesimo compleanno, la timida Jeanne viene imbarcata dal padre Albert in una vacanza alla scoperta dell'isola di Orust, lungo la costa svedese. Per Albert, bibliotecario un po' pignolo e petulante, la vacanza assieme alla figlia è una tradizione annuale da consumarsi sulle orme della storia, ma al loro arrivo sull'isola, Albert e Jeanne scoprono che, per un disguido, nella casa presa in affitto ci sono anche due donne: Annika, la proprietaria dell'appartamento e la sua amica Christine, inizia così per Albert una vacanza da incubo, mentre sua figlia Jeanne, non sembra affatto dispiaciuta di come si stiano mettendo le cose…
LA FRASE DA RICORDARE
"- Non se la spassano molto. - Non hanno il cervello."
Qual è il punto di partenza della storia di IL VIAGGIO DI JEANNE?
La Svezia, che per me è un paese importante su cui ho già diretto due cortometraggi. Per il mio primo lungometraggio desideravo filmare un universo che conosco bene senza peraltro padroneggiarne tutti i codici. Non volevo filmare una realtà troppo vicina, come per esempio Parigi, dove vivo. Mia madre è svedese, e quando ogni anno vado nella casa di famiglia, in un’isola dell’arcipelago di Göteborg, ho sempre la sensazione che il mio sguardo su quell’isola e quel paese sia nuovo. Resto in effetti ancora stupita, sorpresa, da quel che vedo, e questo è importante per filmare…
Cos’ha voluto raccontare con IL VIAGGIO DI JEANNE?
Il mio film parla dell’incontro di quattro persone che a priori non avrebbero mai dovuto incrociarsi. La loro coabitazione forzata scompagina progressivamente le certezze e le illusioni di ciascuno di loro. Come nei miei cortometraggi, mi sono interessata ai rapporti che si intrecciano tra le persone, come esse si osservano, si guardano, si rivelano e si scoprono poco a poco col tempo.A questo si aggiunge il tema dei rapporti padre/figlia…
È un’idea che risale al 2001. Avevo passato l’estate in Svezia e mia madre aveva invitato degli amici: un padre e sua figlia e un’altra donna, alla quale mi sono ispirata per il personaggio di Christine. Mi interessava vedere questo padre che si dedicava totalmente alla formazione della figlia, rifiutandone allo stesso tempo la nascente femminilità. Non la voleva vedere grande perché cominciava a comprendere di dover farsi carico di cose di cui si sentiva incapace, cose che avrebbero pututo essere imbarazzanti per un uomo come lui. Un uomo rimasto senza dubbio un po’ bambino.
Per quali motivi ha introdotto una leggenda vichinga in questa storia così reale?
Per mostrare che all’inizio della storia padre e figlia sono due bambini che stanno crescendo. Albert, il padre, che parte con il suo metal detector alla ricerca d’un tesoro vichingo, è come un bimbo che sogna di avventure e scoperte, e si crede un grande esperto. In fin dei conti la sua ricerca è assurda: è per lui un modo di non vedere che la figlia gli sfugge e non ha più l’età per divertirsi a cercare con lui un tesoro.
Chi sono i suoi personaggi?
Il primo personaggio che ho scritto è stata Jeanne, l’adolescente. Era il più evidente, il più facile da creare per me, che so cos’è essere adolescente, mentre gli altri personaggi hanno età che io non ho ancora vissuto. Una volta trovata Jeanne, Albert è apparso e mi sono detta “Bisogna che vi siano due campi”. Ci sono da una parte un padre e una figlia, e non c’è una madre, ci sarà perciò l’altro campo: due donne, Christine e Annika.
Chi è Albert, unico personaggio maschile della sua storia?
È un bibliotecario frustrato, che senza dubbio avrebbe sognato di diventare professore di storia alla Sorbona. Assume spesso, d’altronde, arie da grande oratore. È anche molto metodico e molto organizzato, il che è un modo di rassicurarsi. È un personaggio che non vuol vedere che attorno a lui ci sono cose fragili. In linea generale i miei personaggi hanno tutti un bagaglio che si trascinano dietro e che fanno del loro meglio per accettare. Hanno un muro davanti a sé e non vogliono assolutamente vederlo. È solo perché in questa estate si incontrano in un luogo chiuso, delimitato, un’isola da cui non possono fuggire, che progressivamente andranno rivelandosi nel contatto reciproco.
Perché la scelta di Jean-Pierre Darroussin per interpretare Albert?
C’è un’umanità naturale che traspira da lui. E rende il suo personaggio sempre avvincente, anche se a volte è duro da sopportare con le sue idee ben radicate, la sua mania di predeterminare gli impieghi del tempo per la figlia…
E Judith Henry nel ruolo di Christine?
Ciò che mi piace nel personaggio di Christine è la sua commovente fragilità, simboleggiata tra l’altro dalla figura minuta e gracile di Judith. Christine è un personaggio che riempie lo spazio con le sue parole e la sua sicurezza, ma il fatto che sia tanto esile la rende in definitiva molto fragile.
Come ha trovato Anaïs Demoustier per il ruolo di Jeanne?
Ho fatto circa sessanta provini a potenziali Jeanne. Jeanne è un personaggio completamente chiuso nella sua bolla, un po’ disconnessa, un po’ tutta nei propri occhi, nel proprio universo. È così che riesce a esistere da sola, senza l’influsso del padre. Nei provini Anaïs si è rivelata perfetta, come se avessi scritto la parte per lei. Ha una recitazione sobria e naturale, che però libera sempre un’ampia tavolozza di emozioni.
I paesaggi hanno un significato forte in questa storia… Svolgono in effetti un ruolo doppio e paradossale: rassicurante e minaccioso allo stesso tempo. Hanno qualcosa di singolare, un certo esotismo svedese con le sue luci incredibili, i suoi sorprendenti paesaggi grigio piombo, i bordomare rocciosi, l’opacità conturbante dell’acqua in certe ore e la bella luminosità del cielo in certe altre… Ho giocato con questi contrasti. All’inizio i personaggi arrivano in una bella casa rossa; tutto è grazioso e pittoresco e progressivamente, con l’evolversi degli stati d’animo dei miei eroi, i paesaggi diventano più scuri, inquietanti. Abbiamo anche lavorato molto con il vento, cosa non intenzionale in partenza, ma abbiamo girato in un’estate molto ventosa: è diventato un elemento molto interessante, insieme visivo e sonoro, che poteva anche riferirsi metaforicamente ai tormenti dei personaggi.
Quali sono stati i suoi principi di regia? L’importante è mostrare senza dimostrare. Non sono mai lì per giudicare i miei personaggi, ma per darmi tempo per vederli evolversi. Ogni persona ha la sua propria cerchia e il suo proprio ambiente, ed è perciò vano e inutile giudicare. Nel mio cinema cerco di osservare non tanto cosa diventeranno i miei personaggi, ma come lo diverranno, quali strade prendono per cambiare, per evolvere. Un lento progredire attraverso momenti di vita sottili, scene semplici vicine alla quotidianità in cui però i personaggi si rivelano e in cui affiorano le loro emozioni più intime. Per captare questo tipo d’espressione, questi piccoli nonnulla, è importante lasciare la cinepresa e lasciare che le cose si svolgano; lasciare allo spettatore il tempo di entrare nell’universo dei personaggi, nella loro sensibilità. I piani molto lunghi mi sono quindi parsi importanti. Ho anche lavorato a strati (spesso tre) per la profondità di campo. Filmavo i miei personaggi che non occupavano lo stesso spazio pur essendo nella stessa inquadratura.
Ciascuno ha perciò il suo proprio spazio, e tutti sono allo stesso tempo riuniti nella stessa inquadratura. Questo mi consente anche di vedere lo sguardo che ciascuno volge agli altri.
Lei filma un po’ nel modo in cui si compone un dipinto… Io sono cresciuta in un ambiente influenzato dalla pittura. Mia madre lavora al restauro delle opere d’arte al Beaubourg. Uno dei riferimenti pittorici che molto mi ha aiutato, tanto a livello delle inquadrature che delle luci, è Hammershoi, pittore danese di fine XIX - inizio XX secolo, che lavora su toni pastello, e questo è il partito preso della luce nel mio film. Molto svedese.
Hammershoi lavora molto anche sulla rappresentazione di spalle delle donne. Mi hanno sempre affascinato le foto e i dipinti di persone di spalle, che permettono a chi guarda di dare libero corso all’immaginazione. C’è a questo proposito un aneddoto divertente durante le riprese del film. L’attrice svedese Lia Boysen non capiva perché filmassi le persone di spalle in piano sequenza. Un giorno è venuta a vedermi molto colpita: “Tu non mi riprendi che di spalle perché mi trovi brutta?” Le ho dovuto spiegare che per me le persone possono raccontare più cose di spalle che di faccia.
IL VIAGGIO DI JEANNE è sempre stato quello che prevedeva per la sua prima regia?
Sì, l’ho scritto sin dal 2001. Allora andavo molto al cinema, era il periodo in cui ho scoperto Hsiao-hsien Hou e Edward Yang. Ogni volta uscivo dal cinema con uno stimolo supplementare per continuare la stesura della mia sceneggiatura, senza però giungere a qualcosa di soddisfacente. Ho poi scoperto in cineteca Du côté d’Orouët (1973) di Jacques Rozier, che ha fatto scattare tutto. Avevo trovato il tono del film, quello della quotidianità e di una soave leggerezza.
Ha lavorato da sola alla stesura della sceneggiatura?
In partenza ho lavorato un anno, quasi due, da sola, prima di mettermi a scrivere con Mathieu Robin, che è della mia generazione. Avevo una versione scritta, dialogata ma che partiva un po’ in tutte le direzioni. Mathieu ha portato un tocco di comico. Ha trovato idee da commedia dell’assurdo, come la storia del metal detector. In una terza tappa ho poi lavorato con Béatrice Colombier, sceneggiatrice più anziana, con maggior esperienza e anche più familiarità con quarantenni e cinquantenni, che ha arricchito la struttura della sceneggiatura.
Cosa le ha dato questo suo primo lungometraggio?
Mi ero detta: “Il giorno in cui farò il mio lungometraggio diventerò donna!” Mi sono sempre detta questo. “Diventerò un’adulta, una grande persona”. Mi sono resa conto che, dopo allora, sono esattamente la stessa!Intervista a Anne Novion
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