di Andrea Caccia (Italia, 2009)
12 ottobre 2010
"Mosaico generazionale che stupisce per qualità visiva, libertà nel linguaggio e sincerità"
Miglior film innovativo Martini Premiere Awards 2010
Dopo oltre sei mesi di lavoro e più di quattromila video girati da settanta ragazzi, il regista Andrea Caccia ha dato a Vedozero la sua prima forma filmica. Un oggetto poco identificabile, fra diario, documentario e fiction. C’è lo “sbattimento” della scuola, le gioie e le paranoie, lo sballo artificiale e quello naturale, la musica suonata e ascoltata, il culto degli amici, la famiglia mai scontata. E il fidanzato che non arriva mai, le serate vuote, le fughe dalla classe, il dramma della patente, i sogni al lunapark, la filosofia sull’altalena, i jeans che ti fanno un bel culo. C’è anche tutto quello che gli adulti sembrano avere dimenticato. E c’è una domanda: sarà questa l’età più bella...
LA FRASE DA RICORDARE
"..."
Il regista lo definisce «un film diario» ma bisogna aggiungere subito che l’autore non è uno solo, ma settanta. Settanta ragazzi tra i sedici e i diciott’anni, studenti di tre istituti del milanese (il professionale Floriani di Vimercate, lo scientifico Majorana di Rho e il liceo della comunicazione Maddalena di Canossa di Monza): qui, dove il regista Andrea Caccia ha tenuto dei corsi di linguaggio cinematografico, è nata l’idea di mettere in pratica quello che era stato insegnato. E non con cineprese o telecamere digitali, ma con i comunissimi telefonini.
Democratizzazione delle pratiche culturali, si sarebbe detto una volta: non più un unico autore ma tanti, settanta studenti, ognuno coinvolto a pieno titolo nel progetto e ognuno impegnato a girare la propria parte di film. Ma anche un ribaltamento radicale delle pratiche produttive, una sovversione di ruoli e di funzioni che mette in discussione, almeno parzialmente, la centralità «autoriale» del regista (che pure c’è, visto che il lavoro di sei mesi di riprese è stato poi montato e assemblato da Caccia) così da aprire il fare cinema a più soggetti contemporaneamente. E basterebbero queste due caratteristiche per fare di Vedozero un’esperienza unica e un appuntamento importante, che gli ha fatto meritare il Premio della critica al Martini Premiere Awards e ottenere di essere selezionato all’ultimo festival di Rotterdam. Ma c’è dell’altro.
Certo, non è il primo film fatto solo con i telefonini. Tanto per restare in Italia l’attore Pippo Delbono l’anno scorso aveva presentato al festival di Locarno La paura, un film-saggio sull’Italia e le sue tante contraddizioni (a dire la verità, il suo giudizio era molto più crudo e diretto...) dove gli orrori quotidiani filmati appunto con un telefonino costruivano la tessitura di fondo sulla quale l’autore passava dall’indignazione all’invettiva alla lamentazione. Un’operazione «alta», «civile», «d’autore», in linea con la sua produzione teatrale (c’era anche il sordomuto Bobò, attore di tanti suoi lavori) e lontanissima per ambizioni e ricerca di stile dal lavoro dei settanta studenti lombardi. Ma con un elemento importante in comune: la coscienza (elaborata teoricamente in Delbono, forse solo «intuita» nei giovani di Vedozero) che il telefonino - come una volta il Super8 - possiede una valenza estetico- politica che gli deriva dall’essere un mezzo immediato di scavo e di memoria della realtà.
È da qui, da questa funzione messa «spontaneamente» a disposizione dell’utente, che credo si debba partire per capire ed apprezzare il lavoro di Vedozero, dove l’immediatezza a volte un po’ naïf dei ragazzi viene poi filtrata e «rielaborata» dal regista-tutor (che ha appena presentato, alle Giornate degli autori di Venezia il suo ultimo lavoro: La vita al tempo della morte).
Come si sarà intuito è piuttosto difficile riassumere la trama del film, anche se dura solo 77 minuti. Ci sono dei momenti ricorrenti (le paure per le interrogazioni, i legami di coppia, le confidenze tra amiche, le feste serali) e ci sono dei «personaggi» riconoscibili (il «rumorista» che imita le sonorità elettroniche con la bocca, la coppia di fidanzati che si scambiano le fedine e si promettono eterno amore) ma in generale il film procede per accumulo di volti e di situazioni secondo una logica che verrebbe da definire non di causa-effetto ma di affinità (una soggettiva all’interno di un autolavaggio aiuta a «pulirsi gli occhi» dopo una serie di scene notturne).
Ci sono naturalmente dei luoghi che tornano con maggior frequenza di altri, come la scuola, i posti dove i ragazzi si danno appuntamento, le camerette dei vari studenti. Ma ogni tanto ci sono degli squarci visivi che rompono l’omogeneità della materia e aprono il film all’improvviso, regalandogli una spontaneità preziosa: come la gita al mare, di cui non abbiamo le coordinate (dove? quando? perché?) ma di cui ci resta un’indimenticabile inquadratura di due piedi nudi che entrano nell’acqua mentre qualcuno fuoricampo si lamenta della sua temperatura troppo bassa.
Gli adulti entrano in scena solo verso la fine e senza una funzione specificamente narrativa (vorrebbe voglia di saperne di più del padre operaio in cassa integrazione o di quello che si prepara a una campagna elettorale). I dubbi e i problemi di quell’età sono affrontati solo marginalmente, a volte (come sul tema della droga) con una velocità che sa un po’ di superficialità o di «stanchezza» (basta con queste domande, sembrano voler dire). L’unico vero soggetto sono quei settanta giovani e il loro mondo quotidiano, mai «spiegato» o «indagato» ma piuttosto registrato «a futura memoria», colto nella sua immediatezza e spontaneità, a volte di difficile comprensione. Ma più per gli adulti. Per gli altri è uno specchio in cui guardarsi e nascondersi nello stesso tempo.
Paolo Mereghetti, Corriere della Sera, 15 settembre 2010
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